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2000

INCHIOSTRO ROSSO 
 
 
“Morire non è nuovo sotto il sole, 
Ma nuovo non è più nemmeno vivere”. 
 
(Versi scritti da Esenin con il sangue, la notte precedente quella del suo suicidio, 
in una camera dell’albergo Angleterre a Leningrado) 
 
 
 
 
I redattori si guardarono. Questa volta aveva superato il limite. Anzi, quando lo videro irrompere nella stanza con una pistola in mano, capirono che quel limite superato aveva, addirittura, teso loro un agguato. 
La donna che stringeva nella mano l’ultima lettera pervenuta alla redazione, la lasciò cadere, stupefatta. Sul pavimento si schiuse:  
 
Questa è l’ultima volta che leggete qualcosa di mio. 
Dopo che ci saremo incontrati, non avrete più nessuna possibilità di farlo! 
(alcune macchie di inchiostro rosso) 
FIRMATO: IL VENDICATORE 
 
E di sicuro nessuno si aspettava che tale vendicatore fosse poco più che un ventenne, di bell’aspetto e ben vestito: un angelo che impugnava una pistola.  
“Signori, benvenuti nel vostro peggiore incubo” sorrise, mostrando i suoi denti bianchi ed il luccichio dell’arma a tutti i presenti. “Vi prego, adesso accomodatevi. I convenevoli rimandiamoli a dopo”. In silenzio, stravolti, i redattori si sedettero. Il vendicatore chiuse la porta alle proprie spalle. Poi si mosse, con pochi passi decisi, in direzione del tavolo che si trovava al centro della stanza. Scorse sul pavimento il foglietto. Lo prese. Dopo avergli dato un’occhiata fugace, sorrise ancora e lo ripose nella tasca dei pantaloni. “Bèh, non c’è che dire, credo proprio di essere arrivato al momento giusto. La puntualità è il mio forte”. 
 
** 
 
Uno dei redattori, fissando con occhi isterici un punto nel vuoto, cominciò a blaterare sommessamente: “Io lo sapevo che sarebbe andata a finire così…io lo sapevo…io lo sapevo…”. Il vendicatore percepì subito il ritmo ossessivo di quella frase. Si avvicinò allora belluinamente allo spaventato uomo che continuava a ripeterla e, puntandogli la pistola alla tempia, disse: “Lei lo sapeva, signore? Lei lo sapeva?”. Anche il suo ritmo era ossessivo, e le sue parole echeggiavano nel silenzio della stanza. “Ed allora, se lei lo sapeva, e se tutti quanti qui lo sapevate, perché non avete fatto niente per evitare che succedesse?”. Tutti si aspettavano che quell’angelo premesse il grilletto. Chiusero gli occhi, sospirarono, si lasciarono investire dalla violenza delle sue parole e dei suoi gesti esaltati. Ma non lo fece. Non sparò. Allontanò la canna della pistola dalla tempia del redattore. Sorrise nuovamente. Poi estrasse, dalla tasca interna della sua giacca, una serie di fogli dattiloscritti che buttò, con sprezzo, al centro del tavolo. Un tonfo secco che risvegliò tutti dal torpore della propria paura. “Ecco, è questo ciò che sapevate ma avete sempre ignorato di sapere!” pronunciò con infinita rabbia. “Voi, maledettissimi socratici dei miei stivali!”. L’angelo era indiavolato. Impossessato da un’ambizione più grande di lui, da una vita troppo piccola per contenercela tutta. 
 
** 
 
I redattori della casa editrice SOGNO, tornarono a guardarsi, increduli. Quelli sul tavolo erano i racconti del vendicatore. Racconti che loro avevano sempre scartato. Racconti liquidati tutte le volte con la stessa misera lettera di rifiuto. Racconti che però, in questo momento, potevano rivelarsi come l’unica possibilità di salvare le proprie pelli. Una delle redattrici, difatti, credendo di aver capito tutto, prese il primo foglio e lo esaminò attentamente. Poi, sorridendo soddisfatta in direzione dell’angelo con la pistola, disse: “Ah, ma lei è…è il signor Arpino Michele. Ma certo, come non ricordarsi di lei. I suoi racconti ci sono sempre piaciuti”. E cercò allora, con lo sguardo impaurito, il consenso da parte degli altri. “Pensi…pensi che in una delle nostre prossime collane editoriali abbiamo intenzione di pubblicarglieli tutti”. 
Cazzate. 
Il vendicatore non esitò un attimo. La freddò all’istante, con un colpo alla nuca. Vide la sua testa abbattersi sui fogli e imbrattare di sangue alcune frasi di un suo racconto nel quale dichiarava che non avrebbe mai ammazzato uno sguardo.  
Uno degli altri redattori si alzò di scatto, minaccioso, nel tentativo di reagire. Ma l’angelo colpì ancora.. Deus ex machina. Due cadaveri nel giro di pochi secondi. Due falsi giudici in meno per la gioia del giudicato! 
“Signori, è proprio vero ciò che diceva Al Capone. Puoi fare molta più strada con una parola gentile e una pistola, che con una parola gentile e basta” pronunciò il folle Michele Arpino, con quella fredda calma che solo gli assassini di certi racconti saprebbero mantenere in una situazione del genere. Poi si sedette ed in tutta tranquillità accese una delle sue marlboro. Fumò lentamente, soprappensiero. Nessuno degli altri osava muoversi o anche solo respirare. 
Pensava, il vendicatore, l’angelo ventenne, Arpino Michele, pensava, pensava, pensava. Interminabili secondi colmati solo dalla pesantezza dei secondi. Dal silenzio. Non quello della sua mente, no davvero. Quella era un continuo turbinio di invenzioni, di sogni, di progetti infiniti. Ma tutti senza sbocchi, purtroppo. Senza alternative. Senza niente, insomma. Ecco, niente: questo era tutto ciò che aveva ottenuto. Né un sì, né un no: proprio niente! Perché se uno a vent’anni smette di lottare con la penna e sceglie di impugnare una pistola, qualcosa di sbagliato al mondo c’è. E forse era proprio questo il pensiero che occupava adesso la mente affannata dell’omicida. Il quale continuava a dondolarsi ossessivamente sulla sedia, giochicchiando con la propria arma, ed aspirando sbadatamente fumo. 
E niente… 
 
** 
 
“Al Capone era un genio!” sbottò alfine seccato, alzandosi con foga dalla propria sedia e spegnendo la marlboro consumata sul pavimento, assieme agli stupidi pensieri che l’avevano accompagnata. Già, perché ormai non serviva più a nulla pensare. Aveva già pensato troppo, infruttuosamente. Ormai contava solo l’azione. Ormai era nella merda fino al collo, cosa poteva trarre di buono da un ragionamento? 
Girò per alcuni minuti nella stessa porzione della stanza. Di tanto in tanto lanciava enigmatiche occhiate alle figure intorno al tavolo. Era ansioso, e tutto il suo corpo serbava una carica di adrenalina incontrollabile. Una giovane macchina possente, robusta, alimentata ad odio. Saettava, incalzando i suoi stessi passi. I redattori parevano ammirati per tutta quella vitalità fisica . Spaventati, forse, dalla giovane forza dell’assassino di due di loro. Sapevano comunque che qualcosa stava per succedere. Così si rassegnarono ad aspettarla. 
Ed arrivò. Non si fece attendere poi molto, era prevedibile. Le prime voci confuse – dalla finestra aperta -, le prime domande sulla provenienza degli spari, ed alla fine le prime sirene della polizia. 
Capolinea. 
“Bene, signori, come era facilmente prevedibile abbiamo compagnia. Tutto questo non cambia comunque il nostro programma” pronunciò solennemente l’assassino. “Voi siete miei ostaggi, chiaro?”. 
“Mi scusi signor vendicatore, signor…signor Arpino…”. Uno dei redattori (lo stesso che poco prima aveva rischiato d’essere ammazzato), consolato dal rumore delle sirene, ebbe la forza di biascicare qualcosa. “…Perché non si arrende? Lei…lei ha già ammazzato due persone, non complichi ulteriormente la sua situazione…”. Sudava freddo. Quasi balbettava. “Mi creda, lo dico per il suo bene. Lei…lei è un bel giovane…”. Fu prontamente interrotto. L’angelo con la pistola lo aveva già raggiunto. Lo agguantò con forza dal collo della camicia e lo sollevò dalla sedia. Allora lo trascinò con passi rapidi verso la finestra aperta. Lo strattonò con violenza, indicandogli il fuori, e facendolo pericolosamente sporgere. L’uomo tremava. Piangeva. Dietro il velo delle proprie lacrime, riusciva a malapena a scorgere un gruppo di gente dabbasso e due volanti della polizia. Guardavano verso l’alto, in direzione della finestra aperta, indicando le loro due figure. Additando l’assassino e la sua prossima vittima. Lui. Sì, proprio lui. Questa volta non aveva dubbi: la sensazione della sua imminente morte gli apparve nitidamente. E tutto perché non riusciva mai a starsene zitto! 
“Ha parlato per il mio bene, signore? Il mio bene?”. Il vendicatore continuava a strattonarlo con veemenza crescente ad ogni parola. “Il mio bene? Lo guardi, lo guardi il mio bene, è la fuori! Adesso c’è gente, là, proprio là, che vuole sapere di che pasta sono fatto. Vuole vedere, vuole capire se sto solo giocando o se faccio sul serio, capisce?”. Urlava, premendo la canna della pistola sulla schiena del redattore. “Il mio bene, eh, eh…ma di quale bene parla? Non c’è più bene per me, e non ce n’è più per tutti loro, e per lei, no!, non ce n’è più per nessuno, è finito!”. 
Sparò. 
Un fiotto di sangue gli investì il viso. Il redattore precipitò dalla finestra. Assieme al suo cadavere, caddero nel vuoto anche alcuni fogli di un racconto che egli aveva tenuto stretti nella sua mano fino ad allora. Era un altro dei racconti del vendicatore. Un racconto nel quale si parlava di un viaggio senza ritorno: la vittima lo avrebbe consegnato al suolo. 
 
** 
 
Si arriva ad un punto in cui ogni dolore diventa solo qualcosa di metafisico. La morte ha il contorno delle parole, non ha più senso. Si confonde con le riga di un racconto. Uno dei tanti. Di quelli che, ormai da tempo, il vendicatore cercava in tutti i modi di farsi pubblicare. Spedendoli alla casa editrice SOGNO, desiderando, sperando, credendoci. Vedendo tanta altra gente passargli avanti, ed avendo pur sempre la volontà di sperare, di ricercare, di ottenere. Senza riuscirci però, perché c’era qualcuno prima di lui, meglio di lui! Ed arrivando allora a non reggere più la meschinità di quel gioco. E morire così. Sì, morire, senza senso. Ancora in un racconto, in parole inutili… 
“Adesso, là fuori, sapranno che qui non si scherza. E mi auguro che l’abbiate capito anche voi”. Michele Arpino si ripulì il viso, schifato. Ma non dal sangue, no. Quello, pure lui, non aveva senso. C’era qualcosa di più grande. Lui schifava tutto ormai, indiscriminatamente. Schifava addirittura il suo stesso schifare. Tutto, davvero. Senza esclusioni. “Bene, signori, mettiamoci all’opera. Il tempo a nostra disposizione non è poi tanto”. Guardò per un attimo, preoccupato, il proprio orologio. “Dunque, voi avete sotto i vostri occhi, sul tavolo, una serie di miei racconti. Quello che io vi chiedo ora, o vi ordino se volete, è che li leggiate con molta cura. Non voglio un vostro giudizio. Così sarebbe troppo semplice. Non mi soddisferebbe”. Si prese una piccola pausa, ingurgitando un po’ d’aria. “Io voglio, anzi pretendo, la verità…tutta la verità…nient’altro che la verità!”.  
I redattori rimasti in vita si guardarono per l’ennesima volta, scoraggiati. Sapevano che il gioco era scorretto. Percepivano l’assurdità di quanto veniva loro richiesto, e del circolo vizioso entro il quale eseguire tutto ciò. Loro avevano un ruolo che, l’angelo con la pistola, avrebbe potuto modellare a proprio piacimento. Era tutta una farsa. Un altro racconto. L’ultimo capolavoro di quel folle, di quel Michele Arpino che non accettava le sconfitte della vita. Di quel giovane che componeva, attraverso la morte, il proprio sogno. 
Ed era questo il racconto che sottoponeva alla loro attenzione, adesso. E sapevano che non contava accettarlo o scartarlo, come sempre avevano fatto. No, non era questo ciò che voleva. Lui pretendeva la verità. Ma una verità che non c’era. Era già stata scritta, e ignorata. Non sarebbe servito a nulla cercarla. Potevano solo sperare che qualcuno venisse a salvarli. Ma il vendicatore avrebbe potuto benissimo ipotizzare un racconto nel quale nessuno l’avrebbe fatto. Erano in suo esclusivo possesso. Serrati nella prepotenza della sua penna: la sua pistola. Pertanto, non fecero altro che eseguire i suoi ordini. Si suddivisero i racconti e cominciarono a leggerli. Li divorarono, pagina dopo pagina. Forse finsero solo di farlo. Ma anche questo rientrava nel gioco. Nella verità che avrebbero dovuto scovare, sotto il velo di quelle parole. 
 
** 
 
Il vendicatore tacque per tutto il tempo. Osservò quel rispettoso silenzio che richiedeva la sua farsa. Fumò altre tre marlboro. Vagando a vuoto per la stanza, cercava forse la conclusione più idonea. La fine più giusta per il suo ultimo componimento. Quello definitivo. Quello che gli avrebbe assegnato la gloria. Voleva la verità. A poco più di vent’anni, Michele Arpino, pretendeva la verità. Ma anche lui era cosciente del fatto che non l’avrebbe mai trovata nelle parole dei redattori. Anzi, non la voleva. Non gli serviva affatto. Era una semplice scusa per non dover ammettere di aver fatto tutto questo solo per il gusto di ammazzare. Solo per stabilire che effetto fa la parola bang!, e poi ancora bang!, e ancora bang!, e bang!, bang!, sparando su tutto!, eliminando un fottutissimo mondo sbagliato! 
Ammazzò tutti i redattori, tranne uno. Dette appena loro il tempo di pronunciare qualche parola sui suoi racconti, poi li eliminò. Cancellò delle verità inesistenti. Dei commenti che sarebbero comunque stati errati. Delle frasi sospese in un vuoto di ideali. Nel nulla al quale era affidato, ormai, il trascorrere della sua vita. 
Solo uno non fu ammazzato. La conclusione del racconto non era ancora pronta… 
 
** 
 
Fuori, il rumoreggiare si fece più acuto. Sempre più voci, più passi, più sirene, più panico e confusione, tanta confusione. Tanto congetturare, tanto affannarsi per limitare i danni di una tragedia che ormai volgeva al suo epilogo. La fine di quel racconto, vedeva due soli uomini vivi. In silenzio, l’uno di fronte all’altro. Naufraghi, in un mare di cadaveri. Nell’attesa di approdare su di un’isola che non c’è. Non c’era, mai ci sarà. 
“Perché…perché non mi ammazzi, così la facciamo finita? Eh?”. L’ultimo redattore, esasperato dalla paura, ruppe il silenzio. Fissò, con tutto l’odio che gli era possibile, il carnefice di fronte a lui. Quel bastardo che aveva fatto piazza pulita dei suoi colleghi! “Avanti! Avanti, fammi fuori! E’ solo un altro bang!, un altro maledettissimo bang!”. La sua voce era concitata. I suoi occhi, due specchi di follia, nei quali il vendicatore poteva ora scorgere un barlume di verità. Un riflesso di se stesso. Dunque, niente. “Ce l’hai un altro proiettile? Ed allora usalo! Porca miseria, usalo! Cancellami! Fammi uscire da questo incubo!”. Il vendicatore sorrise. Non disse una parola. Lasciò che fosse solo lui a parlare. Anzi, con un cenno della pistola, lo invitò a proseguire. “Cosa volevi? Eh? Volevi che tutti noi ti dicessimo quanto sei bravo? Eh? Volevi questo? Una bugia? Una verità? Cosa, cosa? Eh?”. Ogni parola era un fulmine. Ed Arpino Michele pareva compiacersi di questa tempesta. Era ciò che cercava, pretendeva. “Ma no, cazzo! Tu sei uno come tanti altri! E non puoi nemmeno immaginare quanti sono gli altri!…Io, noi, noi qui lo sappiamo quanti sono!…Ma tu, tu chi ti credi di essere? Quale giustizia hai preteso? Eh? Quale merdosa giustizia hai ottenuto?”. Ancora silenzio dall’altra parte. La sola beatitudine dell’angelo con la pistola. Il silenzio. L’immobilità. Affidando all’altro l’epilogo. Che concluda lui il racconto! 
“Ecco, ecco prendiamo, per esempio, questo tuo racconto”. Il redattore, ormai privo di filtri, agguantò in malo modo alcuni dei fogli sparsi sul tavolo. “Questo tuo…INCHIOSTRO ROSSO, ecco! Ebbene? No, davvero, dimmi che cazzo mi rappresenta un racconto del genere?”. Non avrebbe ricevuto risposta dal vendicatore. Egli continuava a starsene zitto, lasciando fare tutto all’altro. Soddisfatto della propria impotenza, almeno per una volta. “Dimmi, dimmi che cosa ci può trovare uno di buono in racconti come questi? Eh? Che maledettissima stronzata è mai?”. Il redattore, ricolmo di una rabbia infinita, strinse i fogli fino ad accartocciarli. “Come pretendi che ti venga pubblicato uno schifo così? Eh? Pieno di tutta questa violenza, queste insoddisfazioni, questi cadaveri…Eh?…Hai fatto tutto questo casino per racconti come INCHIOSTRO ROSSO?”.  
Il redattore, ormai al culmine del suo vituperare, rivolse un’occhiata stupita al viso sorridente e stranamente tranquillo di Michele Arpino. Poi riprese fiato per un attimo. Sospirò. Infine chiuse gli occhi, e scaraventò uno dei fogli sgualciti verso la sua figura immobile.  
Rimase in silenzio. 
Allora, l’angelo con la pistola, si chinò, raccolse soddisfatto il foglio, e lesse: “E dimmi, dimmi, cristo santo!…come ti è poi venuto in mente di concluderlo così questo racconto?”. 
 

FINE
 
 
Arpino Michele 
 
 
 
 
 
 
 
 
(c) michele arpino - Made with the help of Populus.org.
Last modified on 1.04.2004
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