1999
VAN GOGH CITY
Su questo letto non posso dormire. E’ maledettamente inclinato.
Lo so che le mosche abbaiano alle pantofole perchè il mio gatto non sa portarmi il giornale. Ci ha provato, ma il mio sorriso lo fa sbadigliare.
“Non è inchiappettandoti una persiana che puoi vedere il sole”. Davvero un colpo di genio segnalare la presenza di un grossolano errore nei colori dei semafori. Indubbiamente i musei chiudono i pennelli negli orologi. No, non sto proprio penzolando dal balcone. Piu’ che altro ho disegnato sul mio autoritratto un forte vento d’Agosto. Di quelli che si vedono nel mare, attraverso la sabbia, quando si passa il tempo a mangiare conchiglie. “Dicevo cosi’, tanto per dicevo...”. Come farebbe chiunque altro vedesse rompersi una lampadina.
Lei sa di cosa sto parlando. E’ vero o no che guarda sempre nella stessa direzione? E si chiede sempre perchè sta guardando in quella direzione? E poi la cornice si inclina e perde le mutande e comincia a pensare a quanto sarebbe bello se il grano mangiasse certi suoi formicolii. Ma ha altro per la testa, come per esempio avere altro per la testa: avendo altro per la testa...
“Bè, se dite di avermi visto bere, allora credo che i vostri occhiali siano finiti dentro questa bottiglia vuota”. Non è un bar senza tavoli, è solo che i tavoli sono sparsi un po’ ovunque...là, tanto per dire, su quell’albero e sotto quel ponte e, si’, dentro quella scatola che hai nascosto nella lavatrice. Non è cosi’ che lo spazzolino da denti vorrebbe vederti il giorno del tuo matrimonio: non devi sposarti in quella chiesa che oscilla!
Ho portato qualche comignolo con me, potrebbe servirmi ad improvvisare un bel treno sul quale metterei le mie valigie, spedendole in quel posto nel quale io non andrei mai. Magari proprio sotto il mio letto, dove i topi parlano di cose molto importanti che angosciano la parte di me che non hanno ancora rosicchiato. Non è vigliaccheria. E’ che proprio non riesco a stare in equilibrio sulla forchetta. Cosi’ mi limito al brodo, ed assisto le uova che vogliono imparare a tuffarsi nel latte.
Mio nonno ha vissuto Grandi Guerre in 40x40 centimetri: 1600 centimetri quadrati fa, tutto questo, aveva un senso. Ora, ogni tanto, mi capita di comprare una pistola. E mi sdraio sul pavimento obliquo della libreria, poggiando il mento sulla mano, e la sfoglio. E so che poi passa sempre un editore, mi guarda e mi dice: “Spara!”. Ma io non posso far altro che arrampicarmi al soffitto, aprire la botola che mi sembra di vedere: e ritrovarmi sul tetto della mia casa, a domandarmi chi sono?
Si dice che è morta una persona.
Si dice che sia morta da queste parti.
Si dice che non si sapeva.
Lessi la notizia sul risvolto della mia camicia. Avevo quindici anni e sapevo che un giorno non li avrei avuti piu’. Cosi’ ho cominciato a collezionare vetri in cantina, ed ho conosciuto qualcuno che mi ha detto: “Ogni volta che scrivi devi farlo sempre come se fosse l’ultima volta che lo stai facendo”. Ma non era un caso che avessi le mani verdi, e che tutti i barbieri mi tagliassero ogni volta lo stesso orecchio. Certo, mi consolava sapere che la spazzatura rimanesse sempre al suo posto, ma nei giramenti di terra che la mia testa accellerava ossessionavo gli spazi lasciati liberi dalla mia presenza.
Sono andato ad imbucare una lettera che ho ricevuto qualche giorno fa. Ho scritto l’indirizzo sul marciapiede, perchè sono consapevole che il mittente si divide tra la sua casa immaginaria ed il suo vero tormento. Certe fontane vorrebbero che io diventassi la P dell’insegna incompleta ANIFICIO. Ma troppe volte mi soffermo O O O...
Intuisco il pomeriggio dal fatto che non è ancora giunta la sera. Potrebbe essere anche mattina, se solo le cravatte che non ho visto mi raccontassero cose che ascolto da una vita. Mi sembra comunque che, di sera, i pomeriggi siano piu’ attendibili. “Non dico che il tuo letto è sporco. Dico solo che pende, pende dalla parte opposta a quella sulla quale, io, troverei il sonno”. Talvolta la chiave si sofferma su punti discutibili della tua percezione. (Non serve a nulla nascondere la parte piu’ intima di noi, giacchè essa si manifesta comunque nella nostra intimità). Ed è a questo punto che bisogna mangiare cioccolata. Quantomeno per evitare, inavvertitamente, di sorprendersi a pensare.
Squilla il telefono. Rispondo dall’altra parte. Sento dirmi: “Pronto?”.
“Sono io” dico.
“Io chi?” sento. Ma il dialogo viene prontamente interrotto da una fuoruscita di perplessità nell’aria. Come di un lavandino che perda tempo. Ma non a vedersi gocciolare. Piu’ che altro ad elucubrare di occasioni perdute, di intervalli gestiti male, di altro, insomma. Di tutto quell’altro che non arriva mai...perchè c’è quella particolare atmosfera in cui la musica è sottintesa, un rumore che giunge in ritardo rispetto alla sua stessa fine. Ci saranno sempre calzini da comprare. “Credo, credo che questo lo chiamino futuro”.
“Ma è un’impressione che avevo già avuto prima. Dico, prima ancora che tu la distinguessi”. In un altro posto, sicuramente. A prescindere dalle strisce bianche che dividono in due la carreggiata, lasciando alle possibilità lo spazio necessario ad infilarsi in quella porzione del cervello dove risiedono le possibilità. E’ un completamento. L’Occhio Dei Popoli. L’assimilazione del diverso definitivo, dell’ultimo biscotto. (Se solo mi fosse permesso di sorvolare sugli esempi).
Altrove, a privatizzare l’anima. Non voglio eludere il tempo impiccandomi in un negozio di giocattoli. Si direbbe che ho presunto peccare di presunzione. Come l’altalena alterna al bullone rotto la fattispecie di cio’ che non è successo. E lei si ritrova col culo per terra, a domandarsi parquet?
Mentre le stagioni passano, facendo ruotare il marchingegno dei non-nati e dei morti, attraverso il quale noi assistiamo (spaventapasseri) alla dissoluzione di quel cielo trasfigurato che avevamo posizionato li’, dove non era, li’, dove non è...”Cosa? Cosa?”.
“Dicevo, oltre tutto questo ancora”.
“Ma ne sei sicuro?”.
No, no. Su questo letto non posso proprio dormire.
Magari provero’ a fingere. Ma solo dopo aver chiuso gli occhi.
FINE
Arpino Michele
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2002
Unhappy girl
Gli amori e i dolori profondi sono uccisi dalla loro stessa profondità”.
(Oscar Wilde)
Bianca baciò Nero sul collo. Con forza, con violenza, con tutto l’impeto amoroso che solo lei sapeva metterci. Fuoco di passione, felicità di donna. La carne di lui si fece subito rossa, contratta in un piccolo alone, all’altezza della faringe, segnata dalle labbra e dai denti e dal ghigno affettuoso della propria fidanzata. Morso fatale, delimitazione della zona di possesso. Qualche goccia di sangue, pure. Alla fine un grosso livido antiestetico, accompagnato da una piccola crosta:
“Così non va, Bianca” disse Nero, due giorni dopo, guardandosi il collo malconcio allo specchio. “Cosa diavolo combini? Non vedi che mi fai male?”.
“Scusa, Nero” s’incupì lei. “Certe volte non riesco proprio a controllare il mio amore”. E lo abbracciò allora con affetto giocoso, tastandolo scherzosamente dappertutto. Poi lo trascinò sul letto. Lo spogliò, tornò a baciarlo, ci giocò, con quei tipici giochi del corpo che solo certe donne conoscono. Voleva farsi perdonare da lui per la ferita sul suo collo. Era stata cattiva e violenta, senza volerlo. Aveva trasformato il desiderio in dolore. Doveva riparare, compensare quella disfunzione d’intenti.
Così, alla fine, fecero l’amore. Un amore lungo e movimentato e caldo. Un amore che si interruppe solo quando Nero, ad un certo punto, lanciò un grido soffocato nel buio: “Aaah!”.
Tre giorni dopo Bianca tornò a trovare Nero. Sapeva che lui era arrabbiato con lei, per un qualche motivo tutto suo, ma nello stesso tempo era convinta che sarebbe riuscita a farsi perdonare ancora, a far trionfare l’amore:
“Lo so che non volevi vedermi, Nero. Però io non posso stare lontana da te. Tre giorni mi sono già sembrati un’eternità”. Gli si avvicinò, lieve ed eterea, vogliosa di farsi perdonare. Gli baciò una guancia, gli sorrise genuinamente. Poi cominciò a massaggiargli il collo. Movimenti leggeri e confortanti delle mani: “E’ vero che non ce l’hai con me?” chiese dunque, così femminilmente convincente.
“Forse” rispose Nero, ancora un po’ imbronciato. Avrebbe voluto essere molto più spietato, ma quei massaggi sul collo l’avevano già sciolto. Si stava lasciando andare. Nonostante tutto, Bianca aveva ancora un benefico effetto sul suo corpo di uomo.
“Dai, sciocco, lo so che non ce l’hai con me” Gli sussurrò a quel punto lei in un orecchio. Sentiva che la rigidità di lui stava cedendo, come sempre, come tutte le volte che litigavano e lei cercava di far pace. Iniziò poi a fargli il solletico, per costringerlo a sorriderle, sciogliendolo definitivamente, e attraverso quel sorriso ricevere la risposta che tanto desiderava: “Visto?” esclamò, pertanto, lieta di aver ritrovato intatto il proprio amore. Dunque riprese a massaggiare il collo di Nero. Movimenti concentrici intorno alla nuca, fino a toccargli le spalle e anche la schiena. Poi, risalendo, la mandibola, le guance, gli occhi, il viso, la bocca, il suo sorriso, il mento, e giù, tranquilla, verso il pomo d’Adamo. Mani e dita leggere, confortanti. Era un piacere sentirsele addosso. Una sorta di piacere chimico, un'estasi: “Ci so fare, eh?” continuava d’altronde a sussurrargli lei, delicata, durante tutti questi gesti. E lui assentiva, preso dal proprio benessere, dimenticando ogni tipo di rabbia e di odio nei confronti della propria fidanzata.
Ad un certo punto, però, le mani di Bianca si posarono sulla ferita ancora viva che Nero aveva sul collo, all’altezza della faringe. Egli ebbe un fremito, un piccolo sussulto di dolore. Lei si fermò di scatto, incredula. Guardò con molta attenzione il livido, lo esaminò accuratamente, quasi non fosse in grado di darsi una spiegazione, di capirne il senso:
“E questo?” domandò, difatti, a Nero. “Vuoi dirmi che diavolo è questo?”. Era fuori di sé. Sconvolta, arrabbiata, schifata.
Nero, costretto a risvegliarsi all’improvviso dal piacevole torpore, inizialmente non seppe far altro che deglutire. Poi, però, riacquistato il dovuto coraggio, disse: “E me lo chiedi pure?”.
“Perché, dovrei saperlo? Mi sfugge forse qualcosa?”. Bianca non stava fingendo, era sul serio sbigottita. Nero, a sua volta, non riusciva proprio a capire: “Ma…come sarebbe a dire?” biascicò, appena appena udibile, a mezza strada tra l’esplodere e il rassegnarsi all’idea che Bianca stesse impazzendo e divenendo smemorata. Lei, a quel punto, tacque. Guardò Nero con cattiveria, con delusione. Poi, in un eccesso di rabbia, cominciò a spogliarlo con foga, esaminandogli minuziosamente tutto il corpo, alla ricerca di altre ferite, di altri segni che potessero incastrarlo. E li trovò ! Li trovò sul sedere di lui. Erano dei graffi. Quattro lunghi graffi che gli attraversavano una natica: “Lo sapevo ! Lo sapevo!” gli urlò allora dietro. Era tutta rossa in viso, gli occhi le scintillavano. “ Ora capisco perché non mi vuoi più bene!”. Iniziò a scuoterlo, isterica. “Hai un’altra donna, brutto bastardo!”. Colorò quella constatazione con alcune piccole lacrime che cominciarono a sgorgarle, rigandole il volto estremamente provato. “Chi è la mignotta con cui mi tradisci, e che ti ha lasciato tutti questi segni?”. Lo scosse ancora un po’, come un manichino, poi mollò la presa, rassegnata, nauseata dalla scoperta.
Nero non credeva a quanto succedeva. Non poteva crederci. Era assurdo. Se la sua fidanzata stava scherzando, lo scherzo era fin troppo eccessivo. Se invece non era uno scherzo, qualcosa nella mente di lei si stava rompendo. E, a quel punto, anche nella sua. Pertanto, sentì che l’unica maniera per ritrovare una logica in quel groviglio di dubbi fittizii, fosse di dire la verità, tutta la verità, solo la verità: “Bianca, la mignotta sei tu!” le spiattellò dunque addosso.“Tu mi hai lasciato questi segni. Uno, cinque giorni fa, mentre mi baciavi con ardore sul collo”. Segnò con un dito la sua bocca, e poi la propria ferita, nel tentativo di farle ricordare come erano andate le cose. “I graffi, invece, tre giorni fa, mentre facevamo l’amore. Ricordi?”. Indicò le sue unghie, e il proprio sedere. Mimò la passione di quegl’attimi intensi, e il loro doloroso epilogo. Testimonianze così elementari da non poter essere fraintese. Eppure lei, come una bambina offesa nell’intimo, rispose sprezzante: “Ah, dovrei ricordare?”. Poi iniziò a tremare e a piagnucolare. Era sull’orlo di una crisi di nervi. Nero, con sguardo accomodante, si sforzava di farla rinsavire. Ma lei non ammetteva ragioni, non ne voleva sapere: “Tu…” iniziò a farfugliare, stremata. “…tu sei uno sporco traditore, Nero! Tu…”. I conati di pianto le intervallavano l’odio. “…tu sei un gran bugiardo!”. Ed allora aprì le cinque dita frementi della mano destra e mollò uno schiaffo poderoso sul viso strabiliato del proprio fidanzato.
“Aaah!”.
Alla fine, prese il proprio rancore, e scappò via.
Un’ora dopo tornò a bussare alla porta di Nero. Era sconvolta, distrutta dal dolore. Doveva aver pensato molto, e penato ancor di più. Adesso comunque sembrava essersi calmata. Nero l’accolse, senza vero piacere. Provava più che altro pena per lei. Pena per la sua gelosia, per la sua folle ossessione:
“Stai distruggendoti, Bianca”. Non si può andare avanti così” provò a chiarire. Ormai, aveva deciso che la loro storia non poteva continuare a quel modo. “Lasciamo perdere, finiamola qui. Diciamo che è stato bello, ma ora basta!”. Cercava di usare le parole giuste, quelle meno offensive.
“No, ti prego, non parlarmi così. Lo sai che mi uccidi” pronunciò lei, quasi sovrappensiero, come una gattina indifesa in attesa di fare le fusa. Dimentica del proprio male, e del male fatto. Tornò ad abbracciare Nero, piangendogli addosso le sue amare lacrime. Nel frattempo, gli sussurrava in un orecchio: “Tu non devi tradirmi mai più. Il nostro amore deve rimanere puro, per sempre”. Cercava così conforto, tra le braccia di lui. Ma lui era rigido, questa volta, spietato e arrabbiato più che mai.
Bianca, col cuore palpitante, ubriaca di dolore, cominciò allora ad annusare l’aria. Contorse il naso, ripetutamente, convulsamente, come se stesse provando a catturare un fantasma che aleggiava nella stanza. Poi, all’improvviso, sbottò: “E questo? Di chi è questo profumo?”. Allontanò con una spinta Nero dal proprio corpo. Lo fissò con occhi indagatori, ruvidi, esterrefatti. “Lei è stata di nuovo qui, eh?”. L’altra, la mignotta. Fece oscillare spasmodicamente il capo, in senso di diniego, di disprezzo. Nero taceva, ormai al limite della propria sopportazione. Come poteva spiegare a Bianca che quello era il suo stesso profumo, lasciato lì, da lei, un’ora prima? Tacque, guardando la pazzia nei suoi occhi: “Non perdi occasione per vederla, eh? Appena volto per un attimo le spalle, lei è già qui!”. Con un gesto rapidissimo e isterico prese un paio di forbici che erano lì, a portata di mano. Le brandì in aria, minacciando così il proprio fidanzato. “Ma dimmi, che cos’ha lei più di me?”. Non ragionava più, era completamente fuori dai binari. Nero, invece, era terribilmente spaventato, ma questa volta pronto a reagire. Tacque ancora, lasciando che Bianca brandisse ripetutamente la propria arma e posasse poi il proprio sguardo furioso sulla guancia arrossata di lui: “E quelli? Cosa sono quei segni rossi lì?”. Erano il frutto dello schiaffo che gli aveva dato un’ora fa, prima di scappar via. “Ah, vedo che alla mignotta piace sbaciucchiarti sulla guancia, eh?”. Rise istericamente, minacciando ancora Nero con le forbici. “Evidentemente sa farlo meglio di me, vero? Magari ti fa provare piaceri che io non sono più capace di farti provare, no?”. Muoveva le braccia e la testa, con traiettorie impazzite. Il cuore le pulsava, aveva le vene gonfie. Era pronta ad avventarsi su Nero, per vendicarsi del torto subito. Ma lui fu più lesto. Le bloccò la mano che stringeva le forbici, poi spinse con irruenza tutta la sua figura sulla parete, quasi a voler cancellare l’ombra di quella ossessione. Alla fine, con passi rapidi, uscì dalla stanza e chiuse la porta a chiave, imprigionando Bianca nel labirinto della propria gelosia.
Animata dalla furia cieca della propria voglia di vendetta, Bianca ci mise poco a riprendersi dalla botta sulla parete, che pur era stata forte. Subito, in un gesto quasi meccanico, agguantò le forbici che le erano cadute sul pavimento. Cercò Nero, famelicamente, ma si accorse che non era più nella stessa stanza con lei. Guardò allora la porta chiusa a chiave, e capì di essere stata reclusa. Inizialmente, cominciò a battere i pugni su di essa, chiedendo supplichevole a Nero di lasciarla uscire, promettendogli che avrebbe fatto la buona. Ma, dopo un po’, affannata e stanca di tutto quel battere, capì che mai e poi mai il proprio fidanzato le avrebbe aperto. L’ostinazione che c’era al di là e al di qua di quella soglia aveva la stessa intensità, ora, pur essendo di diversa fattura.
Bianca si avvicinò allora ad uno specchio che stava nella stanza. Si guardò con pena. Era sfatta, imbruttita dalla rabbia e dalla gelosia. I suoi occhi bramavano vendetta. Il suo amore l’aveva tradita, e quel pensiero riempì nuovamente il suo volto di lacrime. Accostò le forbici al pietoso spettacolo riflesso nello specchio. Cominciò a sfiorarlo, lentamente, con movimenti lievi e paranoici. Poi, usando un tono di voce un po’ più alto per farsi sentire anche da Nero, che era lì fuori, iniziò a parlare alla eco sommersa della propria immagine:
“Non meritavo tutto questo. Perché? Perché è accaduto?”. L’acciaio delle forbici scintillava sulle sue guance umide. “Solo io posso amare Nero! Nessun’altra potrà dargli il mio amore! Lui mi appartiene, fa parte di me!”. Le lame massaggiavano ora il suo collo rigido. “Quella mignotta non saprà mai renderlo davvero felice! Io…”. La sua voce iniziò a intervallarsi, soffocata dal pianto. “…io non lascerò che me lo porti via! Io…”. Avvicinò la punta delle forbici al suo cuore palpitante. Si fermò: “…io devo fermarla! Devo! Io…”. Iniziò a premere l’acciaio contro la carne fremente. “…io devo salvare il mio amore!”. Penetrò allora, con l’arma della propria vendetta, nel cuore che tanto aveva amato e tanto aveva sofferto.
Tutto tacque.
Solo il sangue, schizzando sullo specchio, riuscì a coprire la visione di quell’attimo che diveniva eterno...
FINE
Arpino Michele
Racconto selezionato nella seconda edizione (2002/2003) del concorso Parolenote della biblioteca di Empoli
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